La teleferica - Marco Loreti
- Laura Frascarelli
- May 8, 2020
- 6 min read
Ero lì, con le spalle strette nella giacca da montagna, con una mano in tasca e l’altra ad armeggiare la sigaretta elettronica. Faceva molto più fumo del solito quella mattina: metà era il suo, metà era il vapore di condensazione dato dal freddo pungente. È comunque soddisfacente per un fumatore vedere uno sbuffo degno di un drago, non quella nuvoletta pallida che a volte l’aggeggio emetteva a livello del mare.
Come sempre, quando sono solo, la mia testa pensa senza sosta, dal contingente all’astratto. Ci saranno stati 3 gradi al massimo, ma nella pioggerella non c’erano fiocchi. Controllavo di continuo sulla manica della giacca, ma era solo acqua. Acqua che di lì a poco avrei visto girare in neve. Sebbene mi sia capitato molte volte, veder nevicare in estate esercita su di me sempre un enorme fascino. Sapere che da qualche parte l’inverno resiste alle bordate calde, che c’è sempre una nicchia di freddo, lassù, mi è di conforto. Come sapere che in casa c’è sempre l’acqua fresca in frigo.
Ma più che la meteo, era il cavo della teleferica che attirava la mia attenzione quella mattina.
La teleferica. La funivia delle merci. Una cassa di legno e ferro, un metro e mezzo lunga, mezzo metro larga, un bordo perimetrale alto 20 centimetri ad essere ottimista. Poi quattro tubolari di ferro che convergono verso l’alto. Lì, sulla convergenza, un groviglio di cavi della fune traente e una carrucola a quattro rotelline appoggiate sulla fune portante. Sono treni a testa in giù, le funivie e le teleferiche. Sono appese con delle ruote alla fune portante, e sono trascinate verso l’alto o accompagnate verso il basso da una seconda fune detta traente. Tutto qui. Quanto basta.
Oddio, ad essere onesti, ci sono delle differenze tra le due sorelle. La funivia trasporta persone, è ipertecnologica, ha sistemi di sicurezza ridondanti, ed ha il freno sulla portante. Se la traente si rompe, due belle ganasce stringono la portante e la funivia resta ferma dov’è. Poi in qualche modo le persone vengono tirate giù. Intere.
La teleferica no, non ha questi accorgimenti, è ridotta all’osso. Quanto basta, appunto. Tanto trasporta merci: scatole di pomodoro, spaghetti, bottiglie di vino, mattoni, calce, cioccolata … tutto quello che serve per portare lassù un pezzo del mondo degli uomini. Lassù al rifugio, questa scatola di cemento immersa tra i ghiacci, da cui alpinisti entrano ed escono. Si divertono ad uscire, ad esplorare il mondo là fuori, ostile e attraente, con il privilegio di poter rientrare se le cose si mettono male. La teleferica è il suo cordone ombelicale.
Quella mattina la teleferica aveva già preso in carico la mia roba: un computer, 2 webcam, staffe e attrezzatura varia. Era partita da 10 minuti più o meno. Ci impiegava 7 minuti a salire e 7 a scendere, 14 in tutto. Così mi aveva detto l’uomo che mi aveva accompagnato in jeep fin lì, Michele.
Michele aveva chiamato su al rifugio con la radio (nessun operatore telefonico si era preso la briga di coprire quell’angolo remoto di mondo) e la teleferica era partita veloce subito dopo. Il gestore del rifugio, su in alto, aveva detto che poi sarebbe toccato a me. “Mettiti con i piedi verso valle, che poi su in alto pende forte, e reggiti con le mani ai tubolari. Non muoverti troppo e non dondolare” aveva gracchiato dalla radio, parlando con me in un “viva voce” non voluto. Poi Michele se n’era andato con la sua jeep, non prima di avermi detto: “Io non ci salirei mai, soffro di vertigini”. E ciao.
Non solo scatole di pomodoro: anche gestori dei rifugi e visitatori particolari e occasionali salgono su quei trabiccoli. É vietato, ma non importa. Dicono che sia prassi. Non solo calce e mattoni, oggi ci sarei salito io.
Solo, senza la jeep alle spalle, senza nessuna possibilità di comunicare con nessuno, aspettavo l’unico segnale possibile in quel momento da un altro essere umano: la teleferica di ritorno. Salire, sedersi dentro, e attendere lo strappo verso l’alto. Poi l’apnea.
Continuavo a ripetermi che mai una scatola di pomodoro era volata giù macchiando di rosso le rocce nere. Che mai un gestore di rifugio era volato giù macchiando di rosso le rocce nere.
Che io non sarei volato giù macchiando di rosso le rocce nere.
Ma la statistica non aiuta, sapevo che il viaggio sarebbe stata un’apnea, con le mani serrate e lo sguardo fisso alla corda sopra di me. Con le orecchie tese a percepire ogni singolo cigolio.
La corda nera che spariva nella nebbia, verso l’alto, sussultò appena, poi apparve la teleferica.
“Tutti in carrozzaaaaaa” – gridò un improbabile capotreno uscendo dalla baracca fatiscente della stazione a valle della teleferica, vestito in divisa d’ordinanza, guardandomi di sottecchi con un ghigno. Nei momenti più drammatici la mia mente si prodiga sempre di offrirmi scenette surreali e comiche come questa. Il capotreno sparì, così com’era comparso.
Tutto come previsto: i piedi spingevano verso il parapetto di fondo, le gambe erano piegate ad angolo, il sedere bagnato poggiava su delle assi di legno leggermente marce e le mani erano serrate alla morte sui tubolari di ferro che la sostenevano. Il suolo si allontanò in fretta, la nebbia ebbe la meglio sulla vista e, in un attimo, ero nel nulla.
“White out” lo chiamano gli alpinisti: qualsiasi cosa oltre un metro dal mio naso, era solo bianco. Il respiro era affannoso e i 3000 metri di quota non ne erano la ragione. Mi confortava l’odore del ferro, di quelle corde che furono color argento per ben poco tempo, che subito si ricoprirono di un velo di ruggine forse 20 anni fa, e che ora erano brune, quasi nere.
Ho sempre pensato che il ferro ci stia bene in alta montagna. È primordiale, sembra essere emerso dalle stesse rocce che sorvola. È freddo e bollente al tempo stesso. Puzza e profuma al tempo stesso. Sa di roccia, ghiaccio e acqua. E cigola, maledetto lui come cigola. Altro che le superfunivie del superdolomiti superski, che ci si potrebbe ricavare anche un bilocale sospeso, tanto sono confortevoli e ovattate. Questa sorella minore cigolava ovunque, e oscillava leggermente a destra e a sinistra, ma non abbastanza da spaventarmi.
Cioè, non più di quanto non fossi già.
Poi, all’improvviso, (a metà percorso, secondo i miei approssimativi calcoli) cominciò ad oscillare anche nel verso di percorrenza. Così, di punto in bianco, tanto che, privo di riferimenti spaziali, ci misi qualche attimo ad accorgermene. Perché? Gli impianti a fune oscillano secondo il senso di moto solo in due casi: quando passano sopra un pilone di sostegno, e qui non ve ne erano, e quando … quando si fermano!
Cazzo! L’unico riferimento che avevo, la carrucola sul cavo portante, aveva emesso sentenza: ero fermo! Ecco, i peggiori incubi si stavano materializzando, tutte le ipotesi valutate e scartate per quella stronza inaffidabile della statistica erano tornate di prepotenza. Beccati ‘sto 0,01% Marco. Beccati ‘sta passata di pomodoro sparsa sopra le rocce. Mi voltai (di scatto no, non era il caso) da tutti i lati compiendo un gesto insensato, ma necessario. Sono 6 i lati del nostro cubo visivo: avanti, indietro, destra, sinistra, sopra, sotto. Questi erano i dati raccolti, nell’ordine: cavo nella nebbia, cavo nella nebbia, nebbia, nebbia, carrucola ferma nella nebbia, nebbia.
Però non stavo cadendo. E non sarei caduto. Si era solo fermato il motore, dai. I generatori diesel dei rifugi si fermano 30 volte al giorno, lo sai bene. Pensa che a volte si fermano anche la superfunivie del superdolomiti superski!
Il cavo tiene, la tua vita è quel cavo, e lui tiene. Punto.
È incredibile come a volte la nostra mente sia capace di switch repentini e assoluti, portandoci da uno stato ad un altro.
Mi accorsi solo dopo un po’ che suonavo mentalmente “Shine on you crazy diamond” dei Pink Floyd, con una limpidezza e un abbandono rari. La melodia era cristallina e forte, più ancora di un CD o di un concerto. Ogni singola nota di ogni singolo strumento era scandita e armoniosa. La serenità mi pervase. Era la libertà assoluta di quel momento. La libertà di essere prigioniero lontano da tutto: non vedere nulla, non sentire nulla, non poter parlare con nessuno. Immerso nella nebbia come in un brodo primordiale. Scoprii anche di essermi ricoperto di una patina bianca, la pioggia era diventata neve, il bianco della nebbia era ancora più bianco, accecante.
E così, in posizione fetale, con la mia vita dipendente da quel cordone ombelicale, provai la sublimante sensazione di poter di nuovo nascere.
M. Loreti
(Ph: Laura Frascarelli)
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