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C'era uno specchio

  • Writer: Laura Frascarelli
    Laura Frascarelli
  • Apr 13, 2020
  • 3 min read

Camminava per la sua strada, sovrappensiero, di corsa, immersa nei soliti abituali pensieri di vita quotidiana. Nel vicolo rimbombava il rumore dei passi sul selciato colpito dalla pioggia. La sua figura si rifletteva sulle pozzanghere e sulle vetrine buie e vuote, alla luce fioca e gialla dei lampioni.

Si soffermò un attimo, guardò avanti a sé. Vide una figura sottile dentro un trench, una postura sbilenca da scarpe scomode, una borsa pesante in mano, capelli bagnati, ombre scure sul volto: il suo riflesso.

Ma era proprio lei? Quasi non si riconobbe. Lei non era così, non era questo.

Era l’ebrezza della primavera, il profumo fresco di un mazzo di fiori, la vivacità colorata delle farfalle. Era l’immensità del mare verde, sterminato e placido o infuriato e travolgente.

Era la musica di un locale fumoso di notte scaldato dal buon vino. Il petalo carnoso di una rosa rossa, il morso di una mela appassionata.

Era il sudore di una vetta conquistata con fatica e soddisfazione.

Era la tenerezza di un abbraccio gentile.

Ora in quel riflesso c’era solo un’ombra scura, un fantasma quasi senza volto, un’immagine vuota. In quello specchio la pesantezza dei giorni uguali, la stanchezza degli occhi consumati, il silenzio delle parole prosciugate. Il riflesso della solitudine.

Pochi minuti dopo lo stesso corpo ancora giovane si rigenerava sotto un getto caldo che per lunghi minuti le accarezzò la pelle, quietò gli occhi e rilassò la tensione sulle spalle. Anche quel dolore sordo e costante che batteva sulle tempie sembrò allentarsi.

La sua mente tornò a quel riflesso.

“Una volta c’era uno specchio dentro di me e ciò che ci vedevo dentro mi piaceva”, pensò. “Da troppo tempo ho rinunciato”. Se lo immaginava ormai rovinato, opaco e pieno di polvere.

Ebbe allora l’istinto di riaprire una finestra su quello specchio dell’anima, per ritrovarne almeno una parte. Cominciò timidamente dai ricordi. Fotografie. Immagini. Frammenti di passato. Tanto piacevoli quanto dolorosi. Per la prima volta dopo tanto tempo erano di fronte a lei, tutti insieme, sparpagliati sulla coperta di lana, un collage di emozioni. Poi fu la necessità di scrivere. Riportare sulla carta le emozioni scansate, evitate, represse. Nascoste lì sotto la polvere, o dietro un angolo buio. Non senza dolore, non senza lacrime silenziose, lasciò andare la penna ed iniziò finalmente, timidamente, ad elaborare il suo lutto. Note di violino che giungevano da chi sa dove l’aiutarono a spingersi verso parole nuove che affioravano sulla carta tra le sue dita. Un fiume di emozioni che quasi la sovrastava ma finalmente la liberava da quella catena che si portava addosso.

Alla fine si guardò nuovamente allo specchio e si vide diversa. Stanca, provata, ma diversa e finalmente crollò in un sonno profondo.

Il mattino seguente si alzò di buon ora, si svegliò con un caffè lungo e si avviò verso i soliti impegni della nuova giornata. Ripercorse la stessa via, che era ancora bagnata. Sentì l’odore del mare nella brezza umida e fresca che le soffiava sul viso e la respirò profondamente. Notò la bellezza delle nuvole di tempesta passata, bianche e gonfie, che sovrastavano la campagna e si perdevano verso l’infinito. Sentì i gabbiani che cantavano e vide il suonatore di violino, un signore di mezza età, barba incolta e aspetto trasandato, appoggiato allo stipite di un grande portone. Lui così minuto difronte alla magnificenza di quel grande edificio medievale pieno di storia e austerità. Alzò lo sguardo su di lui, concentrato e perso nella sua musica. Si sentì grata per quella musica che anche se malinconica, le aveva regalato una sensazione piacevole e calda. Lasciò cadere una moneta nel suo cappello e rispose con un accenno di sorriso al capo di lui che si chinava leggermente. Ma era a disagio. Lui era lì da chissà quanto tempo, forse mesi, e lei non l’aveva mai neanche notato. Pochi metri oltre comprò un donut per sé e un sandwich caldo con bacon per lui. Tornò e glielo porse. Lui interruppe la sua musica per accogliere quel cibo che profumava di buono. In quel minuto di silenzio i loro sguardi si incontrarono: occhi neri profondi e pacati, dentro occhi chiari e irrequieti. Lui posò il panino in tasca e riprese a suonare. Lei sgattaiolò via rapidamente, un po’ in imbarazzo ma contenta. Nel suo percorso di asfalto verso la piccola stazione del paese notò come l’erba si intestardisse a crescere anche nei più minuscoli interstizi di civiltà imposta. Pensò all’ostinazione della vita come alla gramigna. Salì sul convoglio, questa volta passò oltre il sedile dove era solita accomodarsi attorniata dai medesimi personaggi abitudinari e assonnati come lei. Decise di mettersi in un posto nuovo. Guardò fuori dal finestrino in movimento e accolse con un leggero sorriso un raggio di luce tiepida e chiara che filtrava dalle nuvole.

“Buongiorno” disse il suo nuovo dirimpettaio.


(Racconto nato dalle esercitazioni di Inchiostro Interiore con Thomas 8 Zinzi - Febbraio 2016

Ph: Algarve 2015)

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